giovedì 1 dicembre 2011

Fabrizio De André - Tutti morimmo a stento


Quando nel 1968 vide la luce, “Tutti Morimmo A Stento” fu una sferzata di vento gelido sul mellifluo e lusinghiero panorama musicale italiano. Pochi anni prima il cantautore genovese si era già fatto apprezzare per canzoni di protesta come “La Guerra di Piero” o per ballate struggenti quali “La canzone di Marinella”.

La poesia ribelle, l’umana solidarietà, lo stiletto dell’ironia furono gli elementi fondamentali che contraddistinsero gli affreschi musicali di De André ad inizio carriera, ma che lo accompagneranno fino alle sue ultime composizioni; uno stile che muterà nel tempo ma che ruoterà sempre attorno ad una personalità fondamentalmente invariata.

Ma torniamo agli inizi, l’uomo libero (come credo piacesse al nostro o almeno è un epiteto che piace molto a chi scrive), si rifaceva alla tradizione degli chansonnier francesi (Brassens in primis) e dei songwriting americani come Dylan e soprattutto Cohen, rielaborandoli in uno stile personale, asciutto, diretto. I personaggi delineati da De André ci parlano da mondi vicini al nostro cuore ma che abbiamo timore di ricordare, con la loro carica di disperazione, umanità, magia. La semplicità e la democraticità dei versi del paroliere genovese celano un’estenuante lavoro d’elaborazione letteraria. Le storie spesso tratte da fatti di cronaca o da autori amati ( Balzac, Proust, Maupassant, Flaubert, E.L. Masters, Fellini) si rivelano attraverso le lenti esistenziali del nostro (mi si conceda tale espressione ricalcando i versi de “Un Ottico”, “Non al denaro, non all’Amore, né al Cielo”, 1971), filtrano fra i corridoi dell’anima e ci vengono restituiti in pietre luminose. Ecco il tesoro nascosto nelle vite disperate, quel malinconico passeggiare nella via fetida, quel odore di letame che sa tanto di uomo (inutile qui citare la storia di una certa ‘via’ che tutti ricorderanno).

L’inconsolabile ricerca di umanità si riscontra anche in questo piccolo capolavoro, che risente forse di un’eccessiva ridondanza negli arrangiamenti e di una esagerata ampollosità nell’orchestrazione, diretta dal maestro Giampiero Riverberi, ma che racchiude al suo interno una carica espressiva enorme, una poesia spesso barocca ma mai fine a se stessa, un viaggio desolante fra i derelitti dell’umanità. De André ‘sacrifica’ la sua riflessione sul tema della morte.

La morte del singolo, attraverso le storie dei personaggi che man mano vanno delineandosi, diventa morte dell’umanità intera, condanna inflitta dalla natura all’uomo (non mi sento di dire ‘inflitta da dio’ perché su questo tema il nostro si pronuncerà in un altro fortunato lavoro due anni dopo). Ancorati a tale principio è però angosciante e contraddittorio constatare come spesso il destino dell’individuo sia dominio nelle mani di un altro individuo. Su tale assunto si scaglia l’invettiva di De André in “Tutti Morimmo A Stento”, affrontando un argomento che rappresenta, forse, il nodo cruciale dell’intera sua poetica; la gestione del potere. Che sia in ambito religioso (“La Buona Novella”, 1970), politico (“Storia di un Impiegato”, 1973) o potremmo dire ‘esistenziale’ come in questo caso, fintanto che esisterà amministrazione e controllo sull’autonomia dell’individuo nelle mani di un’autorità invisibile, non potrà esistere libertà dell’uomo. Ecco allora un appello alla solidarietà in “Tutti Morimmo a Stento”, una riflessione sullo scarto che esiste fra l’uomo ed il divino in “La Buona Novella”, l’abbattimento di qualsivoglia potere in “Storia di un Impiegato”; ecco l’anarchismo di De André. Anarchismo inteso come condizione nella quale “ognuno si da leggi per sé, senza intaccare però la libertà degli altri”.

L’anarchia/utopia si manifesta in “Tutti morimmo a Stento” in versi taglienti, ironici; De André è testimone oculare, scrivano attento al processo dell’umanità.

Così nel “Cantico dei Drogati” raccoglie l’infelice deposizione di un uomo ormai sul confine tra la vita e la morte; l’incipit è sconvolgente: “Ho licenziato dio/gettato via un amore/per costruirmi il vuoto/nell’anima e nel cuore”. Ed ancora “Chi mi riparlerà/di domani luminosi/dove i muti canteranno/e taceranno i noiosi”, “e soprattutto chi/e perché mi ha messo al mondo/dove vivo la mia morte/con un anticipo tremendo”; qui il baritono di De André sembra sussultare in un fremito di mestizia mantenendo però quel distacco canoro che non è incapacità d’immedesimazione o cattiva interpretazione, ma è più come il tono fermo del coraggioso che lancia una sfida appena prima dell’esecuzione. La musica è suadente ed ispirata, decadente ed a tratti speranzosa . Il ritornello (se così si può definire) è senza dubbio una delle pagine più tristi della storia della musica italiana: “Come potrò dire a mia madre che ho paura?”.

Un breve intermezzo dall’acerba sfumatura progressive (ce ne sono tre nel corso dell’opera, per tenere fede alla forma classica della cantata) ci catapulta in uno scenario diverso. Nella “Leggenda di Natale”, fra le tende di una fragile ballata, si consuma la favola nera di una bimba violata: “E venne l’inverno/che uccide il colore/e un babbo natale/che parlava d’amore/e d’oro ed argento/splendevano i doni/ma gli occhi eran freddi/e non erano buoni”. L’innocenza della rima baciata e la delicatezza di pochi accordi arpeggiati addolciscono, come già era successo con Marinella, la morte della malcapitata ed è qui che sta la forza della musica e della poesia di De André, il saper ricostruire la storia di un’esistenza traviata innalzandone il ricordo attraverso la poesia e la fiaba, rendendola così senza tempo. Mi piace qui richiamare alla mente quel brano che De André scrisse anni prima per il collega Luigi Tenco, nella quale chiedeva pietà a dio per il gesto estremo dell’amico; che dio esista o no, non credo sia rimasto insensibile ad una simile invocazione.

Il secondo intermezzo spiana la strada a “La Ballata degli Impiccati”, liberamente tratta da “Ballade des Pendus” del poeta maledetto François Villon. Qui i condannati alla forca manifestano il loro rancore per la vita e la pena; i versi di De André sono scarni, taglienti, sarcastici, mai retorici; "Chi derise la nostra sconfitta/ e l'estrema vergogna ed il modo/ soffocato da identica stretta/ impari a conoscere il nodo. Chi la terra ci sparse sull'ossa/ e riprese tranquillo il cammino/ giunga anch'egli stravolto alla fossa/ con la nebbia del primo mattino/ La donna che celò in un sorriso/ il disagio di darci memoria/ ritrovi ogni notte sul viso/ un insulto del tempo e una scoria"

La musica dipinge sullo sfondo atmosfere funebri; il barrito solenne della tromba sembra scandire le diverse fasi di un’esecuzione pubblica.

La malinconica “Inverno”, invece, insegue la tradizione settecentesca delle “poesie stagionali”. Dopo un breve incipit a venature jazz, ecco srotolarsi la melodia in tutta la sua grazia. I versi setacciano un altro tema caro al cantautore genovese; quello della ciclicità degli amori. L’inverno che “uccide i colori” (come già ne prendeva atto la “Leggenda di Natale”) raffigura la crisi della coppia e l’inevitabile scioglimento. Il brano alterna attimi di speranza a frangenti di mestizia cristallina. Nel finale la triste presa di coscienza: “Ma tu che stai, perché rimani?/un altro inverno tornerà domani/cadrà altra neve a consolare i campi/cadrà altra neve sui camposanti”.

Là dove “Inverno” cedeva il campo a quel tipo di tristezza che spesso ricerchiamo nella vita di tutti i giorni, “Girotondo” ci proietta nel mondo della paura e dell’orrore; fra le buche di un campo martoriato dalle bombe si svolge la danza macabra di un gruppo di bimbi (impersonati da un coro di voci bianche) che inneggiano alla guerra. Un carillon grottesco che sfocia nei versi: “La terra è tutta nostra/ marcondiro'ndero/ ne faremo una gran giostra/ giocheremo a farla nostra/Abbiam tutta la terra/ giocheremo a far la guerra/marcondiro'ndà”. Davvero un pugno in faccia per il panorama musicale di quel periodo ma anche per quello attuale. È triste pensare come questo brano, come tanti altri scritti da De André contro la guerra, sia così dannatamente attuale. Diceva Fabrizio: “Ho cantato per tanti anni ‘La Guerra di Piero’ e non è mai servito a niente”.

Il terzo intermezzo ci accompagna alla suite finale per orchestra, coro, e recitativo. Qui l’invettiva di De André contro l’egoismo e l’insensibilità umana raggiunge il suo parossismo; la poesia si fa carico e da voce a tutto il male e l’ingiustizia del mondo: “Noi che invochiam pietà siamo i drogati/dell’inumano varcando il confine/conoscemmo anzitempo la carogna/ che ad ogni ambito sogno mette fine/che la pietà non vi sia di vergogna”, e ancora “noi che invochiamo pietà fummo traviate/navigammo su fragili vascelli/per affrontar del mondo la burrasca/ed avevam gli occhi troppo belli/che la pietà non vi rimanga in tasca”. Il “Recitativo” è alternato ad un “Corale” che, utilizzando i vicoli della parabola, fa leva sulla solidarietà umana, riscoprendo l’antico valore della fratellanza. Le ultime parole sono una mesta constatazione: “ Uomini cui pietà non convien sempre/ mal accettando il destino comune,/ andate, nelle sere di novembre,/a spiar delle stelle al fioco lume,/la morte e il vento,in mezzo ai camposanti,/muover le tombe e metterle vicine/come fossero tessere giganti/di un domino che non avrà mai fine” ed un’invocazione: “Non cercare la felicità/in tutti quelli a cui tu/hai donato/per avere un compenso/ma solo in te/ nel tuo cuore/se tu avrai donato/solo per pietà”.

Credo sarebbe utile rispolverare un opera di tale ispirata lucidità in un epoca nella quale si è perso il rispetto della vita altrui e soprattutto della morte altrui. Vorrei ricordare, in queste ultime frasi, alcuni miei cari amici che, il giorno dopo l’impiccagione di un uomo, sono corsi su internet per scaricarne il filmato. Vorrei ammonirli affettuosamente con i versi di un brano che Fabrizio aveva tradotto dal grande maestro Georges Brassens: “Tanto più che la carogna è già abbastanza attenta/non c’è nessun bisogno di reggerle la falce”.


Fonte: http://www.storiadellamusica.it/Fabrizio_De_Andr%E9_-_Tutti_Morimmo_a_Stento_(Ricordi,_1968).p0-r1067

Link: http://ul.to/toapcf9i

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