Altra raccolta di poesie di Fabrizio De Andrè, nata all'inizio della drammatica strategia della tensione e ispirato alle rocambolesche invasioni nelle università dei giovani sessantottini in Francia. Probabilmente l'album che ricalca maggiormente la situazione politico-sociale dell'epoca, vista dagli occhi di un uomo che protesta senza fare troppo rumore. Una protesta al di fuori delle canzoni che furoreggiavano con "Lotta Continua" o le ballate anarchiche pro Pinelli o ancora più intensamente evocative di Francesco Guccini. Opera che viaggia su un commento musicale che si inanella in tutti i brani, spaziando però con i testi da una situazione provocatoria ad un j'accuse morbido ma significativo, passando addirittura "dall'altra parte", negli occhi del potenziale terrorista che evacua con le lacrime tutta la sua negligenza vedendo esplodere ciò che non voleva neanche immaginare.
I timbri sonori delle canzoni si rifanno allo stile armonicamente drammatico che spadroneggiava negli anni '70, dove De Andrè ne crea uno quasi personale rendendolo più incisivo, apparentemente tiepido nelle accuse che si rivelano significativamente punzecchianti, anche a costo di far inorridire qualche falso benpensante dell'epoca. De Andrè che attacca con rapide stoccate e con abili bassi mono-tono ciò che la legge vorrebbe celare o vorrebbe evidenziare nella eccezionale differenza tra giudice e condannato. Musicalmente appare quasi scevro di orchestrazioni geniali, metriche non del tutto poetiche come i testi. Ciò non toglie che i musicisti che lo attorniano siano di eccellente levatura (Nicola Piovani) e il tutto viene evidenziato da arrangiamenti melodicamente essenziali anche se non riescono completamente a decollare.
Per quanto riguarda le liriche non credo ci sia bisogno di dire molto, in quanto sono inevitabilmente straordinarie. De Andrè non crolla mai neanche sotto i colpi che potrebbero venirgli inflitti dalla censura, dall'ottusità di improbabili intellettuali, dal clima barbaramente greve dell'epoca, dove si respirava un'aria plumbea, nebbiosa, affaticante. I testi di De Andrè, anche nel politicamente impostato "Storia di un impiegato", sono sempre eccellenti, il punto di forza dell'album. Si potrebbe definirlo anche anomalo se andiamo a dare un'occhiata al resto della fondamentale discografia e ciò deriva semplicemente da una impostazione diversa di quella offerta dalle altre opere. Un De Andrè che vuole dare il suo personale contributo all'analisi del clima cinereo dell'epoca. Indubbiamente ben descritto da canzoni meravigliose come "Canzone del padre" o "La bomba in testa", a mio avviso la migliore dell'album, l'eccellente "Al ballo mascherato" che ricorda lo stile di "Via della povertà" e la metallicamente romantica "Verranno a chiederti del nostro amore".
Opera da ascoltare con attenzione estrema, in silenzio anche religioso, se possibile, sia per raccogliere musicalmente la testimonianza di quegli anni, sia per comprendere la potenza dei testi (e qui consiglio più di un ascolto), da non sottovalutare mai, sia per onorare la memoria di quel genio incontrastabile che saltellando da un bordello ad un palco mediante i carrugi di Genova è diventato il più grande cantautore italiano (e non solo)...
Concludo con un appello rivolto a quei potenti che per decenni hanno riempito di sculture ossee, scatole nere, documenti intoccabili, centinaia di ripostigli, bauli, armadi, "per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti..."
Fonte: http://www.debaser.it/recensionidb/ID_18755/Fabrizio_De_Andr_c3_a9_Storia_Di_Un_Impiegato.htm
Link: http://ul.to/o4v1gcvc
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